Il contesto educativo, da un punto di vista sistemico, è connotato dall’interazione di tre microsistemi: il sistema scuola, il sistema famiglia e il sistema società. Alla base del sistema istituzionale scuola si pone l’allievo che, a sua volta, è introdotto in un sistema di gruppi sociali.
Inoltre il sistema scolastico si divide in piccoli sottogruppi, le classi, che alimentano al loro interno relazioni che si differenziano da una classe all’altra. Anche la classe è un gruppo sociale ma si contraddistingue perché è simultaneamente un gruppo formale ed un gruppo ludico: “è guidata da scopi comuni finalizzati al lavoro e rigidamente imposti da norme ministeriali ma al suo interno si stabiliscono relazioni affettive e si creano legami che hanno scopi diversi da quelli relativi allo svolgimento di un compito” ( Raffagnino, Occhini, “Il corpo e l’altro”, 1990).
La classe è un sistema molto complesso che vede fra i suoi elementi d’interazione l’insegnante, che è istituzionalmente investito del ruolo di guidare un gruppo nel processo di crescita e di apprendimento, e gli alunni che si dispongono ad apprendere. Nel suo esistere “qui ed ora” la classe prevede interazioni che hanno dimensioni individuali, duali, “gruppali” e un insegnante che stabilisce relazioni con i singoli allievi, con i sottogruppi, con il gruppo nel suo complesso e con i colleghi (ad esempio la relazione tra l’insegnante della materia e l’insegnante di sostegno); non possiamo ignorare l’influenza e le pressioni di altri sistemi che ruotano intorno, non direttamente visibili ma imprescindibili, che rendono unica quella realtà.
Molti degli atteggiamenti dell’insegnante in classe prescindono dalle sue caratteristiche individuali o dal tipo di relazione che si stabilisce con i singoli allievi o con il gruppo.
L’insegnante deve tener conto delle prescrizioni organizzative e lavorative ministeriali, della leadership specifica (direzione o presidenza), delle esigenze e richieste dei colleghi, della presenza della famiglia di ogni singolo allievo ed infine di un modello formativo che condiziona più o meno consapevolmente le modalità nel processo d’insegnamento.
Anche le finalità della relazione docente allievo, storicamente e socialmente stabilite, fanno parte di questa idiosincrasia. L’insegnante è quello che è perché questa è oggi la scuola, l’allievo è quello che è anche perché questo è oggi considerato il bambino o il ragazzo.
In altre parole l’insegnante ha una professionalità che si esprime in un contesto preciso (che può essere considerato un sistema aperto) che si autocorregge e ha capacità di modificarsi rispetto ai cambiamenti di tutti coloro che vivono l’esperienza nel suo ambito.
Fondamentale “è la consapevolezza di operare in un sistema complesso, aperto, che segue un proprio processo dinamico di evoluzione, di cambiamento e di autocorrezione”(1).
La prima competenza richiesta per poter operare responsabilmente in tale contesto è quella comunicativa che va giocata e gestita nella relazione con l’alunno (ossia nel rapporto individualizzato e con il gruppo di alunni), nel rapporto con i colleghi (improntato alla progettualità educativa) e i genitori.
La negoziazione fra diversi modelli educativi e culturali, che avviene attraverso la comunicazione, non riguarda semplicemente il rapporto scuola-famiglia, ma avviene anche a livello della famiglia e delle famiglie, fra padri e madri, tra modelli culturali molteplici e , all’interno della stessa istituzione scolastica, tra le diverse ottiche dei colleghi.
La competenza comunicativa viene giocata in un contesto variabile fatto di tante e diverse identità, ruoli e vissuti: l’alunno, i colleghi, i genitori, le famiglie, la dirigenza, gli operatori della ASL, gli enti locali.
L’insegnante, nel momento in cui organizza un progetto educativo, deve osservare il proprio contesto tenendo conto anche della qualità della relazione, deve cioè valutare come viene esperita la realtà della scuola in particolar modo dagli alunni, dai genitori e dai colleghi.
Affinché un intervento educativo sia veramente efficace, deve infatti essere sostenuto, quindi compreso, anche dai genitori e dalla società in genere. I genitori, come anche gli alunni, hanno bisogno di una scuola dell’accoglienza e della fiducia, più che di una scuola che valuta e giudica.
Per poter arrivare ad una buona collaborazione con la famiglia si deve tener conto delle divergenze più ricorrenti fra i punti di vista di insegnanti e genitori; per questo occorre far notare ai genitori, proprio a partire dai loro timori e pregiudizi che:
a) il lavoro cooperativo e la prestazione individuale non sono in opposizione ma possono sostenersi a vicenda, cioè che un buon lavoro cooperativo richiede anche le valutazioni individuali (evitare di dare scarsa importanza alla collaborazione tra compagni o di valorizzare eccessivamente il lavoro individuale);
b) una richiesta eccessiva può risultare controproducente;
c) il non riuscire a fare sempre o ad eseguire perfettamente i compiti per casa non comporta un giudizio negativo per il figlio;
d) lo scopo del lavoro a casa non è tanto quello di esercitarsi quanto quello di imparare ad essere autonomi, e che questo non è possibile se il genitore è sempre lì a “passivizzare” il figlio;
e) ogni bambino-ragazzo è unico come potenzialità e risorse e quindi necessita di un suo specifico percorso d’apprendimento per crescere come persona, percorso che si costruisce a partire dai suoi bisogni;
f) devono conoscere ogni informazione relativa alla programmazione della classe e alla situazione del figlio per poter collaborare;
g) la ricchezza educativa degli stessi genitori è fondamentale e va conosciuta per essere utilizzata come risorsa.
In sintesi genitori, operatori scolastici e socio-sanitari devono tener conto non solo degli effetti che i loro interventi hanno nell’area specificamente presa in considerazione, dal punto di vista della riabilitazione o della didattica, ma anche ad altri livelli, come la motivazione ad apprendere e l’autostima.
Particolarmente nelle situazioni di handicap e di difficoltà, tutte le figure adulte coinvolte devono collaborare affinché non si realizzino quei processi che possono portare ad un progressivo aumento dello svantaggio.
Schema esemplificativo (2)
- Organizzazione sociale ostacolante Scarsa autonomia
(es: barriere architettoniche) --> Vissuto di <-- Difficoltà
emarginazione relazionali
- Iperprotezione --> Scarsa stima di sé
- Iperstimolazione --> Crisi d’identità
- Atteggiamento passivizzante
- Povertà di interazione --> Carenze
- Mancato o scarso uso --> a livello del linguaggio cognitivo
Per raggiungere gli obiettivi educativi l’insegnante non solo deve sviluppare un contatto autentico con gli allievi, ma deve saper agire consapevolmente a livello di qualsiasi comunicazione.
Affrontare conflitti e difficoltà di relazione utilizzando forme efficaci di comunicazione, presuppone di aver acquisito una certa competenza “non verbale”(3).
L’interazione umana non è casuale, ma a mano a mano che una relazione si sviluppa diviene sempre più strutturata, cioè tra una gamma di comportamenti possibili alcuni diventano più frequenti (quindi più prevedibili), mentre altri non vengono mai messi in atto (Watzlawick P. 1969, p.50).
Sul piano euristico si può pensare ai sistemi umani come a sistemi governati da regole: due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della loro relazione sono sistemi interattivi.
Rifacendosi alle concezioni di Hall e Fagen riguardanti la teoria generale dei sistemi, possiamo dire che nei sistemi interattivi gli individui possono essere considerati gli “oggetti” e i loro comportamenti di comunicazione, che servono ad identificarli, i loro “attributi” (che sono le proprietà degli oggetti).
E’ evidente che per comprendere il funzionamento di un sistema questo va analizzato come totalità e non come somma dei suoi componenti: dal momento che le caratteristiche che gli sono proprie, cioè i suoi modelli interattivi, trascendono le qualità dei membri individuali, ogni attenzione deve essere posta sulla natura della sua organizzazione (equifinalità) (Watzlawick P.,Beavin J. H., Jackson D.D. 1967,p.118).
Le ridondanze osservabili a livello di relazione, che Jackson ha chiamato “regola della relazione”, si riferiscono alla simmetria e alla complementarità, alla particolare punteggiatura, all’impenetrabilità interpersonale, insomma a tutti quegli aspetti della relazione che in qualche modo limitano le possibili mosse dell’altra persona coinvolta.
La “teoria della comunicazione” quando ci parla di comunicazione si riferisce a tutto ciò che è osservabile nel corso di un’interazione intesa come processo reciproco in cui tutte le persone coinvolte agiscono e reagiscono, ricevono ed emettono; non è più considerata solo un fenomeno unidirezionale di cui interessa l’effetto sul ricevente, ma un processo interattivo in cui conta anche la reazione del ricevente sull’emittente.
La pragmatica si riferisce agli effetti comportamentali della comunicazione e non tratta solo di forme di comunicazione verbale.
Un individuo infatti, non produce comunicazione ma vi partecipa attraverso vari canali ed il contesto in cui un’interazione si svolge.
L’insegnante all’interno della classe comunica non solo attraverso le parole con i loro significati, ma assumendo un comportamento specifico attraverso la voce ed il corpo.
“Metacomunicare” in modo efficace significa avere consapevolezza di sé e degli altri: è come dire a livello di relazione “ecco come mi vedo in rapporto a te in questa situazione”.
L’aspetto di relazione trasmesso attraverso il linguaggio non verbale (modulo analogico) e l’aspetto di contenuto che dà informazioni sugli oggetti attraverso il linguaggio verbale (modulo numerico), sono complementari in ogni messaggio ma non sempre chiari; spesso c’è la necessità di combinare i due linguaggi e di tradurre dall’uno all’altro.
Non bisogna dimenticare infatti che quando il rapporto è “malato” il contenuto recede sullo sfondo e c’è una lotta per definire la natura della relazione.
Certi specifici segnali corporei (l’atteggiamento posturale, la gestualità, lo sguardo, la mimica facciale), il tono, la cadenza ed il ritmo comunicativo, la distanza, la cinetica, l’uso dello spazio in cui ci ritrova, possono essere utilizzati, consapevolmente, per comunicare efficacemente.
In questa ottica diventa un problema didattico, implicando comportamenti carichi di significato, come utilizzare la cattedra, dove svolgere la lezione, quando comunicare ad un collega.
Nel lavoro con il bambino portatore di handicap se svolgere la lezione in compresenza agli altri insegnanti o dare un supporto individuale o all’interno di un piccolo gruppo, se lavorare dentro o fuori dalla classe, e soprattutto come rapportarsi a lui, ai compagni, ai colleghi, alla famiglia e agli operatori coinvolti durante tutto il processo educativo.
Se è importante aspettarsi da questo bambino cose giuste al momento giusto per evitare sotto-utilizzazioni delle sue capacità, per evitare inutili insuccessi con richieste eccessive e per motivare l’ambiente familiare ad attivarsi con aspettative realistiche, diventa fondamentale, per la garanzia dei risultati, impegnarsi affinché questo percorso fatto di richieste si realizzi attraverso la migliore forma di comunicazione su tutti i fronti.
In altre parole non solo conta il “cosa si dice”, ma soprattutto il “come si dice”, che include il “dove” ed il “quando”.
Note
(1) Tratto da “Nido e dintorni…” a cura di Bartolini P., La Nuova Italia, 1997
(2) Tratto da “Difficoltà d’apprendimento, situazioni di handicap, integrazione”, Vianello R., ed. Junior, 1999
(3) La parte che segue sulla comunicazione non verbale è estratta da “Dalla conoscenza al saper insegnare – un approccio costruttivista” – corso di specializzazione per insegnanti di sostegno Università di Siena 2014-2015 Prof.ssa Malfetti Angelita
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